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Intervista ad Alberto Morra: “Il karate è una via, non solo uno sport”

Intervista ad Alberto Morra: “Il karate è una via, non solo uno sport”

Il maestro Alberto Morra, 8º Dan di karate Shotokan, è uno dei punti di riferimento del karate tradizionale in Italia. Nato a Roma nel 1961, allievo del leggendario Ennio D’Ammassa, ha dedicato la sua vita allo studio, alla pratica e alla diffusione di quest’arte marziale. Lo abbiamo intervistato per conoscere meglio la sua storia, la sua filosofia e la sua visione del karate oggi.

Maestro Morra, com’è iniziato il suo percorso nel karate?

Ho cominciato a praticare karate a 13 anni. All’epoca, come tanti ragazzi, cercavo qualcosa che mi aiutasse a canalizzare l’energia e a costruire una disciplina personale. Ho avuto la fortuna immensa di incontrare il maestro Ennio D’Ammassa, che è stato una guida non solo tecnica, ma anche umana. Con lui ho capito che il karate non è solo uno sport, ma una via: la via del miglioramento continuo.

Cosa significa per lei essere un maestro oggi?

Essere maestro significa, prima di tutto, essere responsabile. Responsabile della crescita dei propri allievi, non solo dal punto di vista tecnico, ma anche etico. Insegno che il karate è rispetto, controllo, equilibrio. Non si tratta solo di colpire, ma di conoscere se stessi e i propri limiti. Un vero maestro deve essere sempre d’esempio.

Com’è cambiato il karate in Italia dagli anni ’70 a oggi?

Negli anni ’70 e ’80 il karate aveva un’aura quasi “mistica”: era una disciplina dura, riservata a pochi, e veniva praticata con grande rigore. Oggi è più diffuso, il che è un bene, ma in alcuni casi ha perso quella profondità originaria. Il rischio è che si trasformi in una pratica sportiva come tante, dimenticando i valori della tradizione: il Dō, la via.

Cosa significa per lei il grado di 8º Dan?

È un riconoscimento che onora la mia dedizione, ma non è un traguardo. Rappresenta sempre un punto di partenza, perché la via dell’apprendimento è infinita. Nel budō, non si smette mai di imparare. Ogni Dan è solo una tappa, non un punto d’arrivo. Io continuo a studiare, ad allenarmi, ad ascoltare. Il karate è infinito, come la crescita interiore.

Qual è il suo rapporto con gli allievi?

Cerco sempre il dialogo. L’insegnamento non deve essere dogmatico: deve far riflettere, stimolare. Ogni allievo è diverso e porta con sé un cammino unico. Il mio compito è accompagnarlo, guidarlo senza mai imporgli nulla, ma trasmettendo passione e rigore.

Cosa direbbe a un giovane che vuole iniziare il karate oggi?

Direi di avvicinarsi con rispetto, curiosità e umiltà. Il karate non è solo un’attività fisica: è una scuola di vita. Non serve diventare campioni, ma persone migliori. E se riesci a portare ciò che impari sul tatami nella tua quotidianità, allora stai davvero percorrendo la via. Bisogna sempre ricordare che il karate non significa vincere, ma portare avanti l’idea di non perdere.

Il futuro del karate in Italia?

Dipende da noi. Dalla capacità dei maestri di tramandare il cuore del karate, non solo la tecnica. Se sapremo mantenere viva la sua anima, il karate continuerà a formare generazioni di uomini e donne consapevoli, forti e rispettosi.

Una frase che riassume il suo cammino?

“Non cercare la vittoria sugli altri, cerca la vittoria su te stesso.” È questo che mi ha insegnato il maestro D’Ammassa, ed è ciò che cerco di trasmettere ogni giorno ai miei allievi.

Intervista a cura di Irene Taurino

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